di Roberto Srelz
15.06.2022 – 10.30 – Una città che torna, nel nuovo millennio, unita nella cultura che ha condiviso per centinaia di anni, nonostante le due metà create dalla politica e dalla storia del Novecento. È Gorizia, fatta della Gorizia italiana e della Nova Gorica slovena: sarà la capitale della cultura 2025. Il titolo, onorario e naturalmente temporaneo, viene assegnato ogni anno a città appartenenti a stati membri dell’Unione Europea; nel 2022 le capitali della cultura sono ben tre (Esch-sur-Alzette nel Lussemburgo, la città lituana di Kaunas e Novi Sad in Serbia), e così sarà di nuovo nel 2023 (con Elefsina in Grecia, Vesprém in Ungheria e la rumena Timisoara) e nel 2024 (l’austriaca Bad Ischl con l’estone Tartu e Bodo, in Norvegia). Nel 2025 Gorizia e Nova Gorica condivideranno il titolo con Chemnitz, in Germania; nel 2026, andrà poi alla finlandese Oulu e alla slovacca Trencin.
Lo scopo dell’importante iniziativa culturale europea è proteggere la sua diversità e ricchezza, avvicinando le cittadinanze e i paesi, e cercando di fare da sprone alla realizzazione di progetti che possano portare, come nota di concretezza, anche a risultati economici importanti per le città coinvolte. In molte occasioni i benefici portati dall’iniziativa sono andati a territori che in passato hanno sofferto: Chemnitz, al confine con la Repubblica Ceca, fu quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti alleati condotti fra febbraio e aprile del 1945 – la sua colpa quella di avere efficienti industrie, ma più di quello di essere densamente popolata e di rientrare nella strategia della guerra del terrore messa in atto dalla RAF per spezzare il morale e la volontà di resistenza delle popolazioni austriache, tedesche e italiane. Le sofferenze di Gorizia e Nova Gorica le conosciamo da vicino. Fu a Gorizia (sebbene il riferimento di Winston Churchill, quando nel marzo del 1946 parlò per la prima volta di cortina di ferro, fosse a Trieste, ma Gorizia c’era tutta) che iniziò per davvero la Guerra Fredda, con la divisione, in confine in mezzo e il ‘muro’.
Gorizia si trova in una posizione unica; descriverla, oggi, parlando di due città separate dalla guerra ma rimaste gemelle, rimaste culturalmente unite, è allo stesso complesso, vero, e riduttivo. Oggi la parola giusta per definire la situazione di Gorizia potrebbe essere “congelata”: sospesa nel tempo da decenni, lenta nella crescita , a volte in regressione e non solo economica, altre ancora punto di attrazione di iniziative moderne e importanti. La storia di Gorizia, dopo la fine della sua dinastia di conti medievali e l’arrivo degli Asburgo nel Cinquecento (senza guerre e senza sangue, ma come frutto di accurate strategie d’alleanza e di matrimoni), è stata un susseguirsi di decisioni imposte da altri, di torpore e monasteri, e di lenta decadenza, senza più ruoli di primo piano. A Gorizia, fino alla Belle Epoque e con poche eccezioni, le diverse componenti etniche avevano vissutoin pace, e in città, oltre ai soldati, c’erano stati principalmente frati e preti, e poi artigiani e mercanti impegnati a commerciare con Trieste.
Poter restare libere e ai confini della storia moderna, senza venir travolti dalle rivoluzioni, dalle guerre e dal sangue, fu per Gorizia un bel sogno e un’illusione: così come dalle guerre, la città era rimasta fuori anche dai mutamenti e dal progresso, fino a quando le spinte inarrestabili del mutamento, oltre a travolgere gli Asburgo, finirono per fare da incubatore a tensioni etniche portate anche dal nascere di nuove classi sociali. Dall’anticlericalismo al nazionalismo, agli scontri, alla frattura proprio fra quelle lingue e culture che avevano coesistito per centinaia di anni; successe un po’ di tutto, fino al disastro della Prima guerra mondiale, combattuta, sul fronte italiano, su quel Carso che di Gorizia è il cuore. La conquista italiana significò nuovi nomi per le strade, i busti di Vittorio Emanuele al posto di quelli del Kaiser, e molte medaglie postume al valore, ma anche la scomparsa dell’influenza dell’Austria e della Germania (inclusi gli imprenditori goriziani di quella discendenza, che se ne andarono per sempre assieme ai loro capitali). La crisi economica e il fascismo di confine che arrivarono poco dopo furono brutali, nella legittimazione di un nuovo senso di appartenenza, quello italiano, su un territorio che aveva in realtà visto il suo prevalere non attraverso la tradizionale condivisione ma con la violenza – la Grande Guerra – e l’imposizione di una identità culturale senza un pieno riconoscersi nella stessa.
Da quella che era diventata “l’altra parte”, l’etnia slovena, giunse subito la reazione, anch’essa violenta e propria di quel “secolo breve” che è stato il Novecento: con il TIGR (“Trieste, Istria, Gorizia e Fiume”: l’unione delle organizzazioni militanti antifasciste) e le formazioni paramilitari dell’area adriatica opposte agli italiani, mentre l’Europa precipitava nella spirale di autodistruzione che avrebbe portato alla Seconda guerra mondiale. La guerra di Gorizia fu molto lunga, altrettanto quanto quella di Trieste, e non finì con la pace del 1945, ma si trascinò allo stesso modo di quella triestina in altra violenza, vendette e uccisioni: chi era stato amico, ora si odiava. Il ‘muro di Gorizia’ fotografò questa situazione posizionandola per sempre nelle cronache come in un dipinto tragico: la prima città divisa in due della nuova era di pace. Altre sarebbero seguite.
La via non fu ritrovata con facilità né durante (e questo è pienamente comprensibile) la Guerra fredda, né nel successivo periodo di sviluppo dell’Unione Europea, nonostante la riconquista del buon rapporto di vicinato con la parte slovena e i preziosi frutti portati dallo stesso.Venuta meno la sua funzione di centro militare e logistico (quasi una città-caserma, che ospitava un esercito fatto di tanti giovani soldati di leva, pensato e strutturato per una resistenza d’attrito di pochissimi giorni al cessare della quale ci sarebbe stata solo la cenere nucleare), le nuove autostrade economiche della metà degli anni Novanta – basate su nuovi concetti di produzione, distribuzione e mobilità – e lo sviluppo della moderna tecnologia dell’informazione lasciarono di nuovo Gorizia in un angolo:via via sempre un po’ più Trieste (ma troppo fuori dalla sua rete di comunicazione per poter veramente beneficiare della portualità e dei rapporti internazionali, in particolare dopo la caduta delle barriere geopolitiche verso l’ex Jugoslavia), e sempre meno Veneto e Italia del nord, con la sfortuna aggiuntiva di non poter diventare facilmente turistica a causa di quella stessa composizione del territorio, bello ma ruvido, che l’aveva maggiormente favorita, come mercato e punto di sosta, nei secoli scorsi.
Gorizia non ha un vero e proprio centro (a meno di non identificarlo, come si fa comunemente, con lo spazio sotto il bel castello medievale); è piuttosto l’insieme di nuclei diversi, dove il contrasto più forte è sicuramente quello fra la città ottocentesca, con i viali verso la stazione ferroviaria, e la Gorizia moderna sviluppatasi ‘di là’, oltre il confine e nel dopoguerra: Nova Gorica, che respira quell’aria di centro Europa frutto della trasformazione, dopo la frammentazione jugoslava, in luogo di divertimento, piccolo ma dinamico. Spesso più giovane e frizzante della sua controparte italiana ancor oggi fatta, a volte troppo, di buon vino, storicità e tradizione. La cooperazione fra le due municipalità, quella italiana e quella slovena, è storia recente, anche se tuttora capita, pur nella pianificazione urbanistica comune che vedrà la sua occasione migliore proprio nell’anno della cultura, che le due metà di Gorizia, anziché lavorare assieme per davvero stimolandosi a vicenda, si rincorrano e rivaleggino.
Se Gorizia riuscirà a tornare alle sue origini, a essere quel punto di confine in cui fermarsi, quel ponte che collega zone di una provincia fortemente diversificata sia come territorio geografico che come economia e cultura – le genti dell’Austria, del Friuli e delle Alpi, quelle dei Balcani, quelle di Aquileia e dell’Adriatico – una nuova giovinezza potrebbe tornare, e certamente il 2025 sarà un anno fondamentale. Ed è stato al di là della memoria di quel confine, nella Piazza Transalpina dove passava, che le cittadinanze hanno accolto con gioia e unite, il giorno della proclamazione, la notizia dell’attribuzione del titolo di capitale della cultura. L’intento, nelle dichiarazioni del sindaco Rodolfo Ziberna, quello di cambiare il modo in cui un intero territorio ha vissuto e vive la sua storia, continuando ben al di là del solo anno di attribuzione del titolo onorario, fino a offrire un futuro di coesione internazionale e integrazione. “Se avremo successo qui”, così Ziberna, “dove le condizioni erano le peggiori a causa delle tragedie del Ventesimo secolo, indubbiamente altre aree in Europa che hanno sofferto per la loro condizione di terre di confine potranno farlo”. Parole che suonano quasi profetiche, e che non possono che far pensare a cosa le guerre in Europa abbiano significato, e significhino più che mai oggi.