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sabato, 6 Settembre 2025

Ansia e adolescenza, ‘Volevo che qualcuno mi ascoltasse’

di Elena Paviotti
20.12.2022 – 10.30 –
“Volevo che qualcuno mi ascoltasse. Grazie, non sa quanto significhi per me”. Questo, tra i tanti, uno dei messaggi che arrivano alla chat di “ConTatto”, servizio dell’ASUGI, gestito da Televita, costruito per prevenire, intercettare ed arginare il disagio in adolescenza.
I disturbi afferenti alla sfera dell’ansia sono tra i più dichiarati e sofferti tra gli adolescenti di oggi. L’esperienza dell’ansia, quando sfocia nel panico, è un evento di devastazione della mente e del corpo. Essa segna un prima e un dopo nell’esistenza di chi l’attraversa: c’è qualcosa dell’orrore estremo, della caduta nell’abisso del non senso e della paura più lacerante.
La vicenda pandemica ha contribuito all’emergere di quadri sintomatici di tale profilo? Certamente sì. La pandemia ha rappresentato un evento traumatico universale. Universale nella misura in cui ha colpito tutti ed ha toccato determinati punti esistenziali fondamentali dell’umano: la vita e la morte, la malattia, la caducità, l’imprevedibilità, il non controllo dell’esistenza. Tutti aspetti in qualche modo confusi, celati e ampiamente rimossi nell’epoca contemporanea. La nostra è stata ed è una vita centrata sulla prestazione, sull’attività, sul dinamismo. Una vita senza confini impossibili: una vita dove pressoché tutto è illusoriamente possibile. La pandemia ci ha obbligati a fermare questo sistema, causando un corto-circuito non solo intersoggettivo, ma soprattutto intrasoggettivo. Certamente in alcuni casi ha reso possibile, quanto meno per un tempo preliminare, una messa in discussione critica delle nostre storie personali, dello stile di vita e dei progetti e desideri rispetto al futuro. La solitudine, la distruzione dei riferimenti di vita consueti, lo stretto contatto con la questione della morte, hanno portato molte persone ad interrogarsi in modo nuovo rispetto a sé stessi. E, quando ci si fa domande che non si è mai osato farsi, emerge l’angoscia. Il tempo non è parso più come potenzialmente infinito, la velleità di controllo e padronanza sulla vita è emersa in tutta la sua limitatezza. Il tempo si è trasformato, al di là delle routine e delle distrazioni e, con esso, il nostro pensiero.

Per un attimo abbiamo smesso di guardare soltanto fuori dalle finestre, puntando il dito sull’altro, e abbiamo cominciato chi più chi meno a guardare dentro casa; dietro ai nostri nomi, intravedendo una fotografia della nostra vita che forse non ci convinceva più così tanto. Poi la macchina economica e sociale ha ricominciato a funzionare; con qualche arresto, ma la vita è tornata a riacquisire quel senso pre-pandemico. Qualcosa però è cambiato, in molti. Non è causale che l’esplosione di sintomi ansiosi si sia verificata proprio in seguito alle riaperture. La crisi soggettiva ha tratto origine da quella frattura, da quel momento che ha causato una discontinuità nel continuum delle certezze. L’ansia è una risposta, sintomatica, al trauma e alla crisi del controllo. Ogni fascia d’età, per le circostanze di vita specifiche in cui si trovava, ha accusato il colpo della pandemia in modo diverso.

L’età adolescenziale è per definizione un tempo di trasformazione, di crisi e di separazione: il compito dell’adolescente è proprio quello di “uscire” da casa, di scoprire il mondo in modo nuovo attraverso l’intreccio dei legami con l’altro extrafamigliare. Perché sono propriamente le relazioni ad aiutarci a costruire la nostra identità: dapprima quelle fondamentali con chi ci dà un nome e ci introduce nel mondo, ed in seguito quelle che scegliamo nel nostro abitare la vita.
Un bambino è colui o colei che viene, appunto, nominato, accudito, cresciuto dall’altro. Un altro che gli racconta il mondo e che traccia una strada più o meno sicura da percorrere e, per questo, confortevole.
Non è un caso che “infante” derivi dal latino in-fans, ossia dal verbo fari che significa “parlare”, e dal prefisso in, che indica il “non”. L’infante è colui che non sa parlare e che viene parlato dall’altro, il quale lo introduce nel mondo del linguaggio e gli dice, in qualche modo, chi è.

La parola adolescenza ha invece plurime origini e significati. Innanzitutto deriva dal verbo adolescere, che significa “crescere”. In alternativa lo si può far derivare dal verbo adolere, con il significato di “andare in fiamme, ardere”. Possiamo pensare al soggetto che fa il suo ingresso nell’adolescenza come a colui che arde, innalzandosi a partire proprio da quelle che fiamme che travolgono in parte le sue fondamenta. L’adolescente deve poter sradicare qualcosa della sua storia per affermarsi, per costruire un futuro.
L’adolescenza segna un passaggio unico ed irripetibile: quello dal bambino, dall’infans appunto, all’adulto.L’adolescente deve poter lasciare la mano, deve iniziare ad abitare il mondo non soltanto come figlio, ma come donna o uomo. Come lo fa? Attraverso i legami. Legami d’amicizia, d’amore. Sguardi e parole di persone nuove, che deve cercare, trovare e soprattutto scegliere. La scelta, un atto che non è proprio dei bambini, ma del mondo dei grandi. Scegliendo si assume una posizione attiva, si passa da oggetti curati dall’altro a soggetti. Soggetti che scelgono chi avere a fianco, chi amare. Che iniziano a chiedere a qualcun altro, non più famigliare: “chi sono?” “puoi amarmi?” “sono amabile?” “sono abbastanza per te?”. Lo sappiamo tutti, perché siamo stati adolescenti: non è affatto semplice. Non è semplice lasciare quella mano, scontrarsi inevitabilmente con il rischio del rifiuto, dell’abbandono. Il dubbio sull’amore dell’altro appartiene a tutti e genera angoscia.

La scoperta di sé come soggetto si definisce proprio attraverso i legami, gli sguardi e le posizioni che si assumono con gli altri, sia nei rapporti uno a uno che nel gruppo. Un figlio sa chi è molto più che un adolescente, perché l’adolescente non può essere più solo un figlio, definito quindi da ciò che è stato detto su di lui o lei da mamma e papà. No, l’adolescente deve rischiare: rischiare di non essere capito, di non essere amato, voluto, desiderato. Rischiare di scoprirsi come qualcuno di nuovo, rispetto a quelle circoscritte parole che lo hanno definito fino a quel momento. Diventare adolescente è un coraggioso viaggio verso l’ignoto dove la paura del rifiuto e dell’inadeguatezza è spesso un fedele compagno di sventure (ma anche di sorprendenti avventure).
Lo sguardo dell’altro, il suo giudizio, il suo “sì” o il suo “no” sono le fondamenta delle questioni di ogni ragazzo e molto spesso ce le si trascina dietro per tutta la vita. 
Il trauma pandemico ha cristallizzato questo tempo per i ragazzi i quali si sono ritrovati a chiudersi dentro alle mura famigliari e ad arrestare inevitabilmente il movimento di slancio verso l’altro. Non soltanto: la pandemia ha consolidato anche l’utilizzo degli strumenti digitali come modalità unica, esclusiva e necessaria di contatto con i pari.
L’universo del web mette un velo e una distanza, sopra a tutti i pericoli dell’incontro reale. Non è difficile comprendere quindi il perché abbia preso piede e il perché non sia per noi più possibile “tornare indietro”. La conoscenza dell’altro passerà sempre, in una certa quota parte più o meno totalizzante, attraverso il campo digitale. Essere passatisti non ci aiuterà quindi a comprendere i giovani ma soltanto ad allontanarci ancora di più da loro. Dopotutto, chi di noi non può dire di essere stato trascinato quanto loro in questo universo difeso e confortevole?

Qual è però il punto? Il nodo della questione è che oggi i ragazzi si trovano in estrema difficoltà nel momento in cui devono sperimentarsi nell’incontro corpo a corpo con l’altro. Questo accade sia con i pari che nel legame con adulti di riferimento: insegnanti, allenatori, educatori e via così.
Il giudizio, letto nello sguardo e nelle parole potenzialmente pronunciate nella verità del legame al di là degli schermi, è diventato qualcosa di insostenibile per molti ragazzi nel contemporaneo. La classe, come spazio tempo formativo della vita, risulta spesso intollerabile per via del confronto, impossibile da evitare, con il gruppo e con l’autorevolezza di chi lo coordina. Prendere parola, esporsi, svelarsi nell’immediatezza della relazione, porta alla perdita del controllo sulla nostra immagine abilmente ritagliata e filtrata che le tastiere ci illudono di possedere.
L’ansia, che spesso sfocia nel panico, rappresenta un segnale di questa insostenibilità, una fuga del corpo e della mente dal trauma della verità dell’incontro.

ConTatto aiuta i ragazzi a trovare il coraggio di chiedere aiuto: è una chat anonima e, ovviamente, senza volto. La dimensione dello sguardo e del giudizio è pertanto azzerata, permettendo ai giovani di potersi dire sinceramente al di là di ogni paura. Dall’altra parte dello schermo c’è chi desidera leggerli e, dunque, ascoltarli, accogliendo la loro sofferenza ed orientandoli verso un possibile aiuto concreto. ConTatto è dunque un ponte possibile e rivoluzionario, tra i ragazzi e un eventuale spazio di cura della loro sofferenza che implichi, se necessario, la possibilità di un incontro reale all’interno dei servizi territoriali, attraverso cui lavorare ed affrontare il senso di inadeguatezza, la paura e la costruzione di una propria identità in un mondo che è fatto sia di smartphone che di corpi e nomi, parole e sguardi, al di là dell’apparente perfezione formale dei nostri profili.

La chat di ConTatto ti risponde e resta con te dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 18. Per un dialogo più approfondito e per le situazioni d’emergenza è sempre attivo anche il numero verde (800 510 510), sette giorni su sette, 24 ore su 24. Le persone che rispondono, alla chat come al telefono, sono psicologi, esperti nel settore, in grado di comprendere i bisogni dei giovani e dare un aiuto professionale.

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